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Cosa è la “maternità surrogata” (o gestazione per altri o gestazione d’appoggio, GDA)? E’ il procedimento inumano e schiavizzante, per cui una donna mette a disposizione per fini economici il proprio utero e porta avanti la gravidanza per conto dei committenti ricchi, che possono essere single o coppie, sia eterosessuali che omosessuali. Esistono diversi tipi di surrogazione: da quella tradizionale, che prevede l’inseminazione artificiale dell’ovulo della madre surrogata, che è quindi anche madre biologica del bambino; a quella gestazionale, in cui la madre surrogata si limita a portare avanti la gravidanza dopo che le viene impiantato nell’utero un embrione realizzato in vitro, che può essere geneticamente imparentato con i genitori committenti o provenire da donatrici. Tutti questi procedimenti, sono indicati dal politicamente corretto, come conquiste di civiltà.

In alcuni paesi la surrogazione è vietata, come in Italia, Francia o Germania. In altri la maternità surrogata è sostanzialmente non regolata: non è esplicitamente vietata ma spesso sono proibiti, e puniti penalmente, gli accordi che prevedono dei pagamenti, mentre sono accettate le maternità “altruistiche”, quelle in cui sono previste solo cifre che rimborsino le spese sostenute dalle donne per la gravidanza. Si tratta di Argentina, Australia (nel Nord), Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Irlanda, Giappone, Paesi Bassi, Venezuela, alcuni stati statunitensi. Ci sono poi degli stati in cui la surrogazione è espressamente permessa e regolata: in questo gruppo rientrano gli stati in cui è previsto un contratto prima che la donna resti incinta (Grecia, Israele, Sudafrica e, parzialmente, la Nuova Zelanda e l’Australia) e stati in cui le condizioni dell’accordo sono verificate dopo la nascita del bambino (Regno Unito e altri). Infine ci sono degli stati con un approccio permissivo e che consentono un pagamento esplicito: India, Russia, Thailandia, Uganda, Ucraina e alcuni stati degli Stati Uniti.

A margine delle critiche avanzate dai media di regime al testo sacro Bibbia, circa la maternità surrogata, per giustificare questa terribile pratica, propongo la storia di una donna statunitense che per così dire ha “prestato” l’utero ad una coppia di omosessuali per tenere nel suo grembo il loro futuro bambino; e la spiegazione “sull’utero in affitto” analizzando le storie di Sara e Rachele da parte del Rabbino Capo di Roma e Vicepresidente del Comitato nazionale di Bioetica, Riccardo di Segni.  

1) “Io madre surrogata, vi racconto il mio incubo”. Elisa decide di offrirsi a un forum on-line come madre surrogata. Lo fa nello Stato in cui vive, nel Minnesota, dove questo tipo di pratica non èsurry regolamentata. “Ho incontrato diverse coppie attraverso un sito internet senza consulenza legale ed ho scelto una coppia omosessuale”. La Gomez racconta di esser rimasta positivamente colpita da questi due uomini, con i quali decide quindi di firmare un accordo che, oltre ad assicurarle un compenso, la riconosce per sempre madre della bambina e la garanzia di essere sempre presente nella sua vita. Tuttavia, come insegnano i latini, verba volant. Anche perché, suggerisce un altro adagio, le apparenze spesso ingannano. La gravidanza procede bene. La Gomez porta in grembo sua figlia con gioia e con la fiducia che la avrebbe potuta vedere frequentemente.

Le cose però cambiano nel momento in cui entra in travaglio. La coppia di uomini inizia a starle accanto in modo morboso. “Appena è nata la bambina, mi sono subito sentita legata a lei, ho percepito che era mia figlia e sapevo che non potevo separarmi da lei”, spiega. Di questo legame affettivo sembrano preoccuparsi i due “committenti”, che si offrono per accompagnare la madre a casa una volta dimessa, insieme alla piccola, dall’ospedale. La Gomez accetta, sale sull’automobile e qui capisce che l’atteggiamento dei due omosessuali è drasticamente cambiato. Provano a rassicurarla, ma la Gomez ha come l’impressione che i due vogliano sbarazzarsi di lei. La riaccompagnano a casa e si portano via sua figlia. “Da quel momento mi sono sentita come un mero fantasma di me stessa”, soggiunge. Ma i veri fantasmi diventano i due “committenti”. La coppia – spiega – “ha improvvisamente tagliato le comunicazioni e ha lasciato lo Stato senza darmi alcuna informazione”. La Gomez non trova conforto nemmeno presso le autorità, che – afferma – “non mi hanno assistito, trattandomi come se quella bambina non fosse mia”. È così che prova ad adire le vie legali, ma ne rimane oltremodo scottata. Dopo un primo processo – racconta – “il giudice ha dichiarato che io non ero la madre di mia figlia, ma solo un donatore genetico”. La donna decide così di ricorrere in appello, dove le toghe riconoscono il suo legame genitoriale con la piccola ma stabiliscono altresì di lasciare la bambina alla coppia omosessuale.

L’incubo non finisce qui. La Gomez – che è pittrice e mantiene la sua famiglia svolgendo vari lavori – viene costretta a pagare quasi 600 dollari di assegni di mantenimento e viene minacciata di prigione se avesse parlato o scritto, negli Stati Uniti, di quello che le è successo. Qui in Italia, dove è libera da questa censura di Stato, racconta con le lacrime agli occhi le sofferenze di sua figlia. “Le telefonate che ho fatto a quella coppia poco dopo la sua nascita sono state traumatizzanti, perché la sentivo urlare disperatamente di sottofondo”. “Sono stata ingenua”. La donna, dichiara di non vedere più sua figlia da quando aveva due anni e mezzo e aggiunge: “Sono certa che migliaia di donne, nel mondo, soffrono la mia stessa sorte”. Sono le numerose donne sfruttate, costrette dalla violenza o dalla fame, ad “affittare” il proprio utero. “Io non sono una schiava e mia figlia non è un oggetto ci sono leggi contro la vendita di parti del corpo umano e tuttavia la maternità surrogata è accettata”.

surrogata22) Rachele e Sara:  l’utero in affitto ai tempi dei patriarchi. Nella animata discussione che si sta sviluppando sul tema della maternità surrogata è stata tirata in ballo la matriarca Rachele come modello antico e sacro. La storia biblica racconta che la moglie prediletta del patriarca Giacobbe non riusciva ad avere figli e questo la faceva molto soffrire, fino al punto di offrire al marito la serva Bilhà: «unisciti a lei, che partorisca sulle mie ginocchia, e anche io possa avere figli da lei» (Gen. 30:3). Giacobbe obbedisce, Bilhà partorisce e Rachele dice: «il Signore mi ha giudicato e ha anche ascoltato la mia voce e mi ha dato un figlio» (v. 6). Il paragone con la maternità surrogata starebbe nel fatto che una donna che non riesce ad avere figli ricorre a un’altra donna per averli. Ma fino a che punto il paragone regge? Intanto bisogna ricordare ai frequentatori casuali della Bibbia che la storia di Rachele che citano è la seconda di questo tipo, essendo preceduta da quella di Sara, moglie di Abramo, nonno di Giacobbe.

Al capitolo 16 della Genesi si racconta che Sara non avendo figli consegna al marito Hagàr, la sua serva con la speranza di avere figli da lei; Abramo obbedisce, la mette incinta e a questo punto si scatena un dramma tra le due donne che porta alla cacciata di Hagàr, poi al suo ritorno e alla nascita di un figlio: «Abramo chiamò il nome di suo figlio che aveva generato Hagàr, Ismaele» (v. 15; si noti l’attribuzione della paternità e maternità). Anche qui c’è una situazione di sterilità che viene gestita con l’aiuto di una seconda figura femminile. L’analogia con la maternità surrogata ci sarebbe solo nel primo caso, ma con una fondamentale differenza: nella surrogata («in affitto») la madre biologica scompare del tutto di scena, nella storia biblica la madre affronta diverse vicende: Bilhà resta in famiglia, fa un altro figlio e alla morte di Rachele diventa la favorita; Hagàr entra in contrasto definitivo con Sara che la caccia via di nuovo e per sempre (almeno finché vivrà Sara); quanto ai figli, altra differenza essenziale: quelli di Bilhà, benché Rachel dica «mi ha dato un figlio», restano figli della madre biologica, divenuta «moglie» (Gen. 37:2), e quello di Sara rimane legato al destino di Hagàr e per questo vittima di una violenta reazione di rigetto («caccia via questa amà e suo figlio», ibid. 21:10).

Nel caso di Rachele, quindi, il tentativo di appropriarsi di un figlio altrui sottraendolo alla madre biologica riesce solo in parte e questa madre non scompare; nel caso di Sara tutta la procedura sembra essere piuttosto una cura contro la sterilità, e il legame naturale tra madre e figlio non si interrompe. Tutto molto diverso dalla maternità surrogata. E ovviamente non si può dimenticare l’altra differenza: l’inevitabile necessità – in tempi biblici – di ricorso alle vie naturali di procreazione, mentre, e solo ai nostri giorni, queste possono essere sostituite dalla più asettica e certo meno appassionante soluzione della provetta. In più il modello biblico è quello di una famiglia patriarcale dove c’è un uomo fecondo con la sua signora sterile, diverso da alcune situazioni di single o di coppia in cui oggi si ricorre alla maternità surrogata; nella Bibbia in queste storie si apprezza il desiderio di maternità, non quello di paternità.

Il messaggio biblico poi insegna una morale: nel caso di Bilhà il dramma si ricompone integrando in famiglia madre e figli, che però restano con una connotazione un po’ secondaria, come figli di una madre meno importante; nel caso di Sara c’è solo dramma, e addirittura, secondo la spiegazione di Nachmanide, questo dramma starebbe all’origine del risentimento storico dei discendenti di Ismaele nei confronti dei discendenti del figlio naturale di Sara, Isacco. Come a dire: andiamoci piano con certe procedure. Un’ultima considerazione: le persone che vengono usate per questo «esperimento» biologico sono delle serve. Se si fanno confronti tra maternità surrogata e storia di Rachele e Sara, per dire che c’è un precedente che la giustifica, va tenuto ben chiaro che si tratta di sfruttamento di persone non libere. Il che non è un bel modo per giustificare moralmente una procedura attuale. 

Don Salvatore Lazzara

 

Per la stesura dell'articolo, ho fatto riferimento alle seguenti fonti:
Sara e Rachele l'utero in affitto ai tempi dei patriarchi;  Utero in affitto un incubo che ha una parola chiave: egoismo.

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Commenti   

#1 RE: L’utero in affitto nella Bibbia: la storia di Elisa, Sara e RacheleSergio 2016-03-08 12:55
E comunque mai si parla di due maschi o due femmine che affittano uteri di altre persone per appropriarsi di ciò che non è e non sarà mai loro figlio naturale, e che poi vengono allevati da due estranei, deviati omosessuali o lesbiche. Giusto per ribadire ulteriormente il concetto della profonda diversità delle situazioni e delle conseguenze.

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