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Continuiamo a contemplare con gli occhi della fede, accompagnati dall’insegnamento di Benedetto XVI, il grande mistero della morte e risurrezione di Gesù. Guardare il Signore mentre “cammina decisamente” verso Gerusalemme, per portare a compimento l’opera della redenzione, è fondamentale per rispondere alle domande più intime che ciascuno di noi porta nel suo cuore. Il cristiano è chiamato a identificarsi con il “re della gloria”, che entra trionfalmente nella città Santa, accompagnato dall’esultanza dei bambini. Ma a cosa serve la gloria del mondo, se poi perdiamo la vita eterna? Quale Cristo riconosciamo come salvatore? Ci lasciamo trasformare da Lui, oppure siamo noi che vogliamo trasformarlo a nostra immagine e somiglianza? 

Insieme con una schiera crescente di pellegrini, Gesù era salito a Gerusalemme per la Pasqua. Nell’ultima tappa del cammino, vicino a Gerico, Egli aveva guarito il cieco Bartimeo che lo aveva invocato come Figlio di Davide, chiedendo pietà. Ora – essendo ormai capace di vedere – con gratitudine si era inserito nel gruppo dei pellegrini. Quando, alle porte di Gerusalemme, Gesù sale sopra un asino, l’animale simbolo della regalità davidica, tra i pellegrini scoppia spontaneamente la gioiosa certezza: È Lui, il Figlio di Davide! Salutano perciò Gesù con l’acclamazione messianica: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”, e aggiungono: “Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!” (Mc 11, 9s). Non sappiamo che cosa precisamente i pellegrini entusiasti immaginavano fosse il Regno di Davide che viene. Ma noi, abbiamo veramente compreso il messaggio di Gesù, Figlio di Davide? Abbiamo capito che cosa sia il Regno di cui Egli ha parlato nell’interrogatorio davanti a Pilato? Comprendiamo che cosa significhi che questo Regno non è di questo mondo? O desidereremmo forse che invece sia di questo mondo?

(…) “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12, 25). Chi vuole avere la sua vita per sé, vivere solo per se stesso, stringere tutto a sé e sfruttarne tutte le possibilità – proprio costui perde la vita. Essa diventa noiosa e vuota. Soltanto nell’abbandono di se stessi, soltanto nel dono disinteressato dell’io in favore del tu, soltanto nel “sì” alla vita più grande, propria di Dio, anche la nostra vita diventa ampia e grande. Così questo principio fondamentale, che il Signore stabilisce, in ultima analisi è semplicemente identico al principio dell’amore. L’amore, infatti, significa lasciare se stessi, donarsi, non voler possedere se stessi, ma diventare liberi da sé: non ripiegarsi su se stessi – cosa sarà di me –, ma guardare avanti, verso l’altro – verso Dio e verso gli uomini che Egli mi manda. E questo principio dell’amore, che definisce il cammino dell’uomo, è ancora una volta identico al mistero della croce, al mistero di morte e risurrezione che incontriamo in Cristo. (…).

Nella realtà concreta, però, non si tratta di riconoscere semplicemente un principio, ma di vivere la sua verità, la verità della croce e della risurrezione. E per questo, di nuovo, non basta un’unica grande decisione. È sicuramente importante osare una volta la grande decisione fondamentale, osare il grande “sì”, che il Signore ci chiede in un certo momento della nostra vita. Ma il grande “sì” del momento decisivo nella nostra vita – il “sì” alla verità che il Signore ci mette davanti – deve poi essere quotidianamente riconquistato nelle situazioni di tutti i giorni in cui, sempre di nuovo, dobbiamo abbandonare il nostro io, metterci a disposizione, quando in fondo vorremmo invece aggrapparci al nostro io. Ad una vita retta appartiene anche il sacrificio, la rinuncia. Chi promette una vita senza questo sempre nuovo dono di sé, inganna la gente. Non esiste una vita riuscita senza sacrificio. Se getto uno sguardo retrospettivo sulla mia vita personale, devo dire che proprio i momenti in cui ho detto “sì” ad una rinuncia sono stati i momenti grandi ed importanti della mia vita.

(…) Come essere umano, anche Gesù si sente spinto a chiedere che gli sia risparmiato il terrore della passione. Anche noi possiamo pregare in questo modo. Anche noi possiamo lamentarci davanti al Signore come Giobbe, presentargli tutte le nostre domande che, di fronte all’ingiustizia nel mondo e alla difficoltà del nostro stesso io, emergono in noi. Davanti a Lui non dobbiamo rifugiarci in pie frasi, in un mondo fittizio. Pregare significa sempre anche lottare con Dio, e come Giacobbe possiamo dirGli: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!” (Gen 32, 27). (…). Vita, morte e risurrezione di Gesù sono per noi la garanzia che possiamo veramente fidarci di Dio. È in questo modo che si realizza il suo Regno.

Quando tocchiamo la Croce, anzi, quando la portiamo, tocchiamo il mistero di Dio, il mistero di Gesù Cristo. Il mistero che Dio ha tanto amato il mondo – noi – da dare il Figlio unigenito per noi (cfr Gv 3, 16). Tocchiamo il mistero meraviglioso dell’amore di Dio, l’unica verità realmente redentrice. Ma tocchiamo anche la legge fondamentale, la norma costitutiva della nostra vita, cioè il fatto che senza il “sì” alla Croce, senza il camminare in comunione con Cristo giorno per giorno, la vita non può riuscire. Quanto più per amore della grande verità e del grande amore – per amore della verità e dell’amore di Dio – possiamo fare anche qualche rinuncia, tanto più grande e più ricca diventa la vita. Chi vuole riservare la sua vita per se stesso, la perde. Chi dona la sua vita – quotidianamente nei piccoli gesti, che fanno parte della grande decisione – questi la trova.

 

A cura di don Salvatore Lazzara*

 

Il testo completo dell'omelia del 05 Aprile 2009, potete trovarla, cliccando qui. 

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