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A margine del funerale celebrato a Roma nella Chiesa di Don Bosco, tra lo sfarzo e i petali di rose lanciati dall’elicottero per onorare la figura del mafioso Casamonica nel giorno del suo ultimo trionfo terreno, in un misto di religiosità e riti pagani, tipici delle organizzazioni malavitose, sul web e in modo particolare su Facebook circola in contemporanea (è soltanto un caso fortuito di spiacevoli coincidenze) un video (che potete vedere qui sotto), diventato virale: alcuni bambini, di un quartiere periferico di Palermo, giocano a fare i “mafiosi”, acquistando pistole e uccidendo gli avversari e i nemici in nome di quell’onore che da sempre contraddistingue le famiglie mafiose, e di cui i piccoli sono - da quanto emerge dal filmato - i primi emulatori. Non mancano i riferimenti ai codici comportamentali degli uomini d’onore, che se non rimangono fedeli alla famiglia rischiano di perdere la vita. In Sicilia, come del resto in tutta Italia, nei mesi di maggio e luglio, ogni anno si moltiplicano le manifestazioni per ricordare due grandi figure che nel passato hanno contrastato, con la forza della legalità e della giustizia, il fenomeno mafioso. Diceva Paolo Borsellino: “fino a quando non sconfiggeremo la cultura mafiosa, non ci sarà possibilità di riscatto”. La profezia del giudice è attualissima. Con il video ritorna alla ribalta la grande emergenza educativa, di cui anche il Beato Giuseppe Puglisi, parroco di Brancaccio, si era fatto carico. Esiste una “cultura” ed un “modus vivendi” da promuovere e difendere non solo con gli arresti e i processi, ma con l’impegno costante di ogni giorno a partire dalla famiglia per finire a tutte quelle agenzie educative che si trovano ad operare non solo nel territorio, ma anche nelle strutture pubbliche a servizio dei cittadini.

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L’infanzia negata dalla mafia

Daniele ha nove anni, l’orecchino in diamante, i capelli all’insù, grossi occhiali da sole, la giacchetta in jeans. Abita a Catania, a San Cristoforo. Se chiedi a qualcuno come sia il suo quartiere, ti risponderanno che non si tratta proprio degli Champs-Elysées, ma se chiedi a Daniele, San Cristoforo, è tutto il suo mondo. Lì c’è nato, ci sono i suoi amici, quelli dei quali può fidarsi, quelli con i quali, ogni giorno, impara a conoscere la vita. È un ragazzino acuto, intelligente, ama definirsi “bimbo tosto”, sempre forte e vincente. Ti mostra la foto della sua fidanzatina dal cellulare all’ultima moda, poi, quasi malinconico, dice: «mi lassò» e in uno scatto fiero d’orgoglio aggiunge: «ma uora mi n’attrovo una chiù bedda», “ma ora ne trovo una più bella”. Nel parlargli noti subito che è diverso dai suoi coetanei, nel suo perfetto dialetto riesce a disarmarti con considerazioni taglienti che vanno aldilà delle tue convinzioni morali, dell’educazione che hai ricevuto, dell’idea che hai di quel che dovrebbe essere poco più che un bambino. Perché Daniele è già quasi un adulto, e se gli spieghi chi era Falcone, lui, con il padre in carcere e una giovane mamma rimasta incinta quando aveva poco più della sua età, ti risponde: «Ah. Noi stiamo dall’altra parte». Ma perché – ti domandi – esistono “parti”? E un bambino così piccolo come fa ad aver deciso da che parte stare? Chi ha deciso per lui? (Fonte: isiciliani.it)

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L’irrefrenabile degrado socio-economico spinge minori già a rischio a cedere facilmente alle lusinghe e alle facili prospettive di guadagni, potere e rispetto che possono trovare tramite l’affiliazione ad una organizzazione criminale. Pertanto, le stesse approfittano di tali condizioni per utilizzare i minorenni soprattutto, ma ormai non soltanto, in incarichi secondari e comunque indispensabili per le attività del gruppo malavitoso. E’ evidente a questo punto come si stia instaurando un rapporto simbiotico tra la devianza minorile e la criminalità organizzata, soprattutto in realtà territorialmente difficili dell’Italia meridionale, dove la prima è l’abituale bacino di reclutamento della seconda e quest’ultima diventa il polo attrattivo delle tendenze devianti, in modo che la subcultura criminale assurge al rango di unico e fortissimo modello comportamentale per tali soggetti.

L’inserimento dei minori nella criminalità organizzata

Il coinvolgimento dei minori in attività proprie della criminalità organizzata è un fenomeno che ha assunto da anni proporzioni e caratteristiche notevolmente gravi e diffuse. Fornire una visione d’insieme della situazione risulterebbe impossibile, ma, comunque, si possono riportare come esempio dei dati che emergono da uno studio effettuato dall’Ufficio centrale per la Giustizia Minorile. Dalla ricerca è emersa la quasi assoluta presenza di soggetti maschi e di nazionalità italiana, i quali commettono delitti principalmente nella fascia di età compresa tra 15 e 17 anni, anche se non mancano casi in cui la soglia del primo delitto si abbassa fino a 11-12 anni.

I reati commessi sono principalmente lo spaccio di stupefacenti, le rapine, l’uso illegale di armi, il furto e, infine, non mancano i reati contro la persona quali omicidi e tentati omicidi, anche se in proporzione sono più rari. Dai dati emerge, inoltre, che tutti i minori analizzati parlano del proprio ambiente familiare come multiproblematico, degradato, privo di mezzi di educazione, con basso livello di scolarizzazione e pregresse esperienze carcerarie (spesso perché risultano appartenere a famiglie già conosciute come “mafiose”). Inoltre, è evidente la forte influenza negativa della figura adulta che nella preponderanza dei casi risulta complice del minore (a fronte di pochi casi in cui il correo era infradiciottenne), e ciò in particolare quando vengono commessi gravi reati quali omicidi, sequestri di persona e violenza sessuale. La maggior presenza di minori coinvolti in associazioni criminali si registra nella “mafia” e nella “’ndrangheta”, con minori casi per la “camorra” e, in base a questa ricerca, nessun caso per la “Sacra Corona Unita”. (Fonte: guidelegali.it)

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Descrizione del fenomeno

È un fatto ormai riconosciuto, anche processualmente, che le organizzazioni mafiose reclutano tra le loro fila molti giovani poco più che adolescenti e che esse si avvalgono per lo svolgimento di specifiche attività illecite, come lo spaccio di droga, di ragazzi minorenni. Molti di questi giovani, in particolare nel Mezzogiorno, vengono reclutati in quartieri ad alta disoccupazione, in cui vige da sempre la regola del più forte, della violenza, provengono da famiglie disagiate, spesso hanno abbandonato la scuola. I giovani sono affascinati dal carisma dei leader mafiosi, in particolare di quelli latitanti, i quali ai loro occhi sono ritenuti più forti dello Stato che è incapace di catturarli. Il boss mafioso, per questi giovani, diventa un modello di riferimento, una persona di cui fidarsi.

La mafia per questi ragazzi rappresenta la risposta al loro bisogno di ricerca di un senso di identità, di appartenenza, di rispetto, di ricchezza. Questi ragazzi sono attratti dal mondo mafioso in quanto in esso vedono la possibilità di arricchimento rapido, pensano al fatto che una volta divenuti "uomini d'onore", essi saranno temuti e rispettati dagli altri. La mafia, inoltre, offre protezione e sostegno quando necessario, ma non ammette alcuna disobbedienza. Chi viola la regola dell'omertà o commette un reato senza esserne stato autorizzato dal responsabile di quel territorio, muore. I minorenni vengono impiegati in diverse attività: dallo spaccio della droga al compimento di atti estortivi. In quest'ultimo caso è da rimarcare il fatto che le estorsioni sono una delle modalità mediante le quali le organizzazioni mafiose mettono alla prova i giovani, chiedendo loro di dimostrare coraggio, capacità di utilizzare la violenza e di intimidire. I minorenni, come è già accaduto, sono purtroppo impiegati anche per la commissione di omicidi e per questo sono stati definiti "baby killer". Il carcere è una situazione che molti ragazzi mettono in conto di dover affrontare. La reclusione è considerata un attestato di professionalità criminale da esibire ai propri coetanei in libertà e, soprattutto, ai capi delle organizzazioni malavitose.

Parlando di minori e mafia non si possono dimenticare i ragazzi che vivono in famiglie mafiose, i quali non solo hanno da sempre respirato aria di violenza e di prevaricazione ma, magari, hanno visto uccidere i loro padri, fratelli, parenti. In questi casi, secondo il codice d'onore mafioso, deve scattare la vendetta, per cui violenza richiama violenza. Si pensi, inoltre, ai minori figli di mafiosi che hanno deciso di collaborare con la giustizia o ai minorenni diventati essi stessi testimoni di giustizia avendo fornito informazioni importanti per la scoperta di alcuni reati, come ad esempio la giovane Rita Atria. Questi bambini o ragazzi hanno visto cambiare radicalmente la loro vita nell'arco di un tempo brevissimo, sono stati sradicati dal loro ambiente e sono stati sottoposti ad uno specifico programma di protezione.

A partire dagli anni novanta fino ad oggi, è stata riscontrata l'utilizzazione di minorenni per lo svolgimento di attività illecite anche da parte di gruppi delinquenziali di tipo mafioso provenienti da paesi stranieri, in particolare dell'Est Europa. Giovani ragazze sono costrette all'esercizio della prostituzione e piccoli bambini sono impiegati in attività quali l'accattonaggio, i furti, gli scippi. Sia le une che gli altri sono le principali vittime del traffico di esseri umani. E' bene ricordare che le organizzazioni mafiose non temono soltanto l'operato delle forze dell'ordine e della magistratura, ma anche quello delle scuole, delle associazioni di volontariato, delle parrocchie, dei servizi sociali che si propongono di offrire a questi ragazzi che potenzialmente possono essere reclutati dai mafiosi o che lo sono già stati, non solo delle opportunità di vita e di lavoro alternative a quelle criminali, ma soprattutto propongono una cultura della legalità e della solidarietà radicalmente alternativa a quella mafiosa. (Fonte: camera.it)

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In genere le vie di accesso all’organizzazione sono due: la nascita in una famiglia mafiosa oppure l’aggregazione determinata dalle condizioni di vita e dagli stimoli negativi dei referenti malavitosi dei quartieri in cui si abita, i quali, per soggetti in condizione di grave disagio familiare, sottosviluppo socio-economico e degrado culturale finiscono per essere modelli di successo. Nel primo caso l’ingresso nel clan è quasi automatico, nel secondo, invece, l’organizzazione studia attentamente il comportamento dei minori in modo da individuare quelli più svegli, spietati, furbi e abili al fine di utilizzarli come bassa manovalanza per le attività del clan. Si assiste così ad una escalation che porta il ragazzo a compiere “scippi”, rapine classiche, e poi, se davvero affidabili, alla esecuzione di omicidi su commissione dell’organizzazione criminale. Quando si entra in carcere – per tali minori è quasi un passaggio obbligato - si ottiene un attestato di professionalità del crimine di cui fregiarsi all’esterno con i coetanei e soprattutto con gli adulti che devono avere sempre più fiducia in tali minori. (Fonte: guidelegali.it)

(Continua nel prossimo articolo).

Don Salvatore Lazzara

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