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A pochi giorni dal dibattito in Aula del ddl Cirinnà sulle unioni civili, il Comitato “Difendiamo i nostri figli” ha ufficializzato per il 30 gennaio una manifestazione di protesta a Roma. Un nuovo “Family Day” dopo quello dello scorso 20 giugno, quando arrivarono in Piazza San Giovanni quasi un milione di persone. Anche il Presidente della CEI ha dato il suo sostegno alla manifestazione definendola “condivisibile e dalle finalità assolutamente necessarie”. A margine della messa per la giornata dei migranti e dei rifugiati, il Porporato genovese ha detto che "é una iniziativa dei laici, con la loro responsabilità, come il Concilio Vaticano II ricorda", e che l'obiettivo della manifestazione "é decisamente buono perché la famiglia é il fondamento di tutta la società". Massimo Gandolfini, presidente del Comitato promotore, spiega al microfono di Radio Vaticana il significato di questa nuova manifestazione:

“Lo spirito è duplice. Uno spirito di grande responsabilità, perché siamo convinti che sia un passo molto importante per cercare di fermare una legge che noi consideriamo inaccettabile da ogni punto di vista. Dall’altra parte, anche un sentimento di passione perché vorremmo mostrare a tutto il Paese che si tratta di un popolo di persone civili, che non abbiamo intenzione di dichiarare guerra a nessuno ma che semplicemente vogliamo mostrare la bellezza della famiglia che viviamo, famiglia che naturalmente ha anche tutti i suoi problemi, le sue problematiche; ma l’istituto familiare è un istituto che va assolutamente salvaguardato”.

Come mai il comitato “difendiamo i nostri figli”, dice no al ddl Cirinnà? “I “no” categorici, sui quali – ripetiamo noi – non c’è nessuno spazio di mediazione, sono: no alla “stepchild adoption”, no al cosiddetto “affido rafforzato”, no all’affido breve di due anni che poi viene trasformato in adozione, perché tutti questi punti significano negare di fatto il diritto del bambino ad avere un papà e una mamma e a crescere in una famiglia che possa essere per lui il massimo possibile per la sua educazione. Tutti quegli articoli che di fatto non fanno nient’altro che trasferire all’interno dell’unione civile le istanze matrimoniali, ci trovano totalmente in disaccordo. Non vogliamo che ci sia confusione tra l’unione civile e il matrimonio”.

Perché è necessario chiedere il ritiro di tutta la legge? “tenendo presente il disegno di legge Cirinnà -afferma Gandolfini-, credo che sia da rigettare in toto, così com’è”. Dove si trova l’inganno della legge? L’articolo 5 della Cirinnà è un po’ pasticciato perché recita: «All’articolo 44, comma 1, lettera b), della legge 4 maggio 1983, n. 184, dopo la parola: “coniuge” sono inserite le seguenti: “o dalla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso” e dopo le parole: “e dell’altro coniuge” sono aggiunte le seguenti: “o dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso” ». L’articolo 44 comma 1 lettera (b) della legge 184 del 1983 recita: «I minori possono essere adottati [senza ricorrere al normale e complesso iter di adozione] … dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell'altro coniuge». Con la modifica diventerebbe: «I minori possono essere adottati [senza ricorrere al normale e complesso iter di adozione] … dal coniuge o dalla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell'altro coniuge o dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso». Si tratta di capire bene perché l’utero in affitto c’entra.

L’art. 5 modifica la legge sulle adozioni, la quale ora recita che «i minori possono essere adottati dalla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso».  Dunque da una prima lettura sembrerebbe farlo solo tramite l’articolo 5 per cui, se fosse tolto quello, il problema dell’utero in affitto non si porrebbe più? La risposta è no. Resterebbe, infatti, l’articolo 3 n. 4 che recita: «Le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge nonché alle disposizioni di cui al Titolo II della legge 4 maggio 1983, n. 184».

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“Quello che fa scattare l’applicazione della giurisprudenza è il fatto che la Cirinnà introduce di fatto il “matrimonio” fra omosessuali, chiamandolo “unione civile” per pure ragioni tattiche. Lo disse all’inizio di questa avventura l’onorevole Scalfarotto, intervistato da Repubblica il 16 ottobre 2014: «L’unione civile non è un matrimonio più basso, ma la stessa cosa. Con un altro nome per una questione di realpolitik». Chi si contenta del fatto che le “unioni civili” della Cirinnà non si chiamino matrimonio, finirà per avere anche il nome “matrimonio”. Il 28 dicembre 2015, sul Corriere della sera, Micaela Campana, responsabile welfare e terzo settore del Pd e attivissima in questi giorni nell’organizzare per conto di Renzi il consenso parlamentare alla Cirinnà, così si esprimeva: «Il Pd, appena dopo l’approvazione delle unioni civili, non può che incamminarsi sulla strada dei matrimoni gay».

In verità, nella Cirinnà c’è già una norma destinata a fare da apripista al cambio di nome delle unioni civili in “matrimoni”. È l’articolo 8, numero 1, lettera (b), che delega il governo, entro sei mesi dall’entrata in vigore della Cirinnà, ad adottare un decreto legislativo che contempli «l’applicazione della disciplina dell’unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo». Ecco già introdotta nella legge la parola “matrimonio”. Basterà “sposarsi” in Spagna o in Francia, e ci si potrà anche chiamare marito e marito, o moglie e moglie. A quel punto, spunterà un giudice che dirà che si discrimina chi si “civilunisce” in Italia rispetto a chi si “sposa” all’estero, e che anche quello dei “civiluniti” omosessuali dev’essere chiamato “matrimonio”. E il piatto matrimoniale sarà servito, con contorno di adozioni e utero in affitto. Ripetiamolo ancora una volta, a scanso di equivoci. Le unioni civili della Cirinnà non andrebbero bene neanche se chiudessero le porte ad adozioni, utero in affitto e cambio di nome in “matrimonio”. Qui abbiamo solo voluto rispondere a chi sostiene, in modo arrogante e maleducato e dando dell’ignorante a chi dissenta, che nella Cirinnà l’utero in affitto non c’è. Mentre è vero precisamente il contrario” (Massimo Introvigne).

Don Salvatore Lazzara

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