assad

Scusate, non capisco. La guerra all’Isis va bene se la combatte Obama, non va bene se l’annuncia Putin. I raid sono salvifici se li lancia la Francia di Hollande, non vanno bene se li conducono i caccia russi. Se un marziano atterrasse oggi sulla Terra non riuscirebbe a capire gli strani comportamenti degli umani. Già perché la Logica imporrebbe la creazione di un fronte unico per combattere il nemico comune. Non è una novità, peraltro. La Seconda Guerra Mondiale contro la Germania nazista è stata vinta grazie all’insolita alleanza tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti (e l’Inghilterra). Quando, all’indomani dell’11 settembre, Washington ha chiesto ai Paesi del mondo di sostenerla nella lotta contro Al Qaida, quasi nessuno si negò, nemmeno la Russia, che all’epoca era già di Putin, e persino la Siria, che partecipò attivamente al programma di rendition, mettendo a disposizione le proprie prigioni per detenere e torturare i sospetti terroristi catturati dagli Usa in giro per il mondo.

Allora la Siria era sulla lista nera, ma non troppo. Dal 2011, come sappiamo, il quadro è cambiato e Assad è diventato un leader da abbattere. La domanda che però resta ancora oggi senza risposta è: perché l’America vuole eliminarlo? Fino ad oggi non ci è ancora stata data una risposta convincente. La retorica di Obama che l’altro giorno nel suo discorso all’ONU ha evocato la necessità di ribellarsi contro un dittatore che opprime il proprio popolo non è coerente e tanto meno credibile. Se questa fosse la vera ragione, gli Usa dovrebbero attaccare l’Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo che non si possono certo definire democratici e liberali.

Vecchia argomentazione, come ben sappiamo. Due pesi e due misure…Non regge. Come sempre le grandi svolte geostrategiche rispondono a ragioni che restano segrete e a scenari che non vengono spiegati, men che meno al grande pubblico internazionale. Noi ancora oggi non sappiamo perché l’America si ostini a volere la caduta di Assad. Una delle ipotesi più credibili è che da quando i giacimenti americani sono pieni di shale oil, il petrolio del Golfo non è più indispensabile e dunque gli Usa potrebbero aver cambiato il paradigma nella regione, passando dalla stabilità ad ogni costo al caos al fine di rendere molto problematici gli approvvigionamenti energetici ad altri grandi Paesi emergenti, in primis la Cina. O forse ci sono altre motivazioni. Già, ma quali?

Non richiede invece spiegazioni particolari la lotta all’Isis. Un gruppo che all’inizio era composto da mercenari ideologizzati, reduci dal terrorismo in Iraq o che erano stati reclutati nella guerra civile contro Gheddafi in Libia, rappresenta sempre di più una minaccia non solo per la stabilità del Maghreb e del Medio Oriente, ma anche dell’Europa, che deve fronteggiare il rischio di un’estensione del terrorismo nei propri Paesi (neppure la Svizzera è al riparo) e deve porre fine prima possibile al dramma straziante e colossale dei rifugiati. Tante volte gli europei hanno accolto gli appelli degli Stati Uniti, sostendoli. Oggi si aspettano che siano gli americani a dare una risposta concreta alle loro preoccupazioni. La vera fonte di instabilità non è Assad, che peraltro da tempo convive senza problemi con Israele, ma il Califfato, con i suoi orrori, con la sua violenza. Fuor di metafora: la linea di Putin, che invoca un’alleanza con l’Occidente contro l’Isis, appare molto più chiara e convincente rispetto all’ondivaga posizione americana. Il male da estirpare è il fanatismo settario delle minoranze integraliste islamiche. Tutto il resto può attendere.

Marcello Foa

Fonte: ilgiornale.it

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