Attualità e pensieri

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Fa discutere l''appoggio' dell'ambasciatore Usa al 'sì' al referendum Costituzionale. Il 'no' al referendum "sarebbe un passo indietro per gli investimenti stranieri in Italia", dice l'ambasciatore Usa in Italia John Phillips intervenendo ad un incontro sulle relazioni transatlantiche organizzato a Roma all'istituto di studi americani. "Il referendum deve garantire stabilità politica". Gravi e inaccettabili le parole dell'Ambasciatore Usa sul referendum costituzionale: il rappresentante in Italia di uno stato straniero non può in alcun modo permettersi intromissioni di questo tipo nella politica interna. "SÌ al referendum costituzionale: dopo quelli di Confidustria e Fitch Ratings, arriva il decisivo appoggio dell’ambasciatore Usa. Ora mancano solo le dichiarazioni favorevoli di Ramses II, E.T. e Paperon de' Paperoni, per capire che la nuova Costituzione farebbe (?) gli interessi del popolo italiano (?)". Ma quando finiranno queste continue pressioni e interferenze sulle decisioni sovrane del popolo italiano?

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caso

La vicenda dei due fucilieri di marina italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, quali organi in divisa al servizio dello Stato, con l’accusa (ancora non dimostrata dagli organi giudiziari indiani), di aver presumibilmente ucciso dalla petroliera Enrica Lexie battente bandiera italiana due pescatori indiani confondendoli per pirati, al largo dello Stato di Kerala, ruota attorno alla figura dell’immunità funzionale nell’ambito del diritto internazionale. In base ad un principio di diritto internazionale classico, un militare che agisce nell’esercizio delle proprie funzioni, e aldilà del territorio del Stato di appartenenza, non ne risponde in prima persona, ma la sua azione od omissione sarà imputata allo Stato di provenienza. Pertanto, un eventuale illecito non va imputato a tale militare personalmente nell’ambito del diritto penale dello Stato estero, ma allo Stato di provenienza nell’ambito del diritto internazionale. Tale immunità è definita funzionale e, nel caso di specie, l’India non l’ha riconosciuta all’Italia ed ai due marò, anzi, lo Stato indiano ha deciso di procedere tramite un procedimento interno, con norme di diritto penale indiano.

In questo quadro giuridico complesso, distorto tante volte dai mezzi di comunicazione che sono diventati i nuovi tribunali della vicenda, e dai deboli tentativi politici da parte italiana per giungere ad una conclusione legale,  è iniziata la due giorni di udienze al tribunale arbitrale internazionale dell'Aja sul caso dei marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone.  Obiettivo dell'Italia è di far rientrare in patria il marò Salvatore Girone, tuttora trattenuto contro ogni norma internazionale in India, per tutta la durata del procedimento arbitrale sulla giurisdizione della vicenda che vede li vede accusati di omicidio. "Girone rientri in Italia, un essere umano non può essere usato come garanzia per la condotta di uno Stato”, dice l'agente del governo italiano Francesco Azzarello.

L'udienza è stata aperta dal presidente del Tribunale arbitrale, il russo Vladimir Golitsyn. Subito l'ambasciatore Azzarello, agente del governo italiano ha preso la parola e ha spiegato che considerato che il procedimento arbitrale sul caso "potrebbe durare almeno tre o quattro anni", Girone rischia di rimanere "detenuto a Delhi, senza alcun capo d'accusa per un totale di sette-otto anni", determinando una "grave violazione dei suoi diritti umani". Per questo il Fuciliere "deve essere autorizzato a tornare a casa fino alla decisione finale" dell'arbitrato. L'ambasciatore italiano affonda: "L'unica ragione per cui il sergente Girone non è autorizzato a lasciare l'India è perché rappresenta una garanzia che l'Italia lo farà tornare a Delhi per un eventuale futuro processo. Ma un essere umano non può essere usato come garanzia per la condotta di uno Stato". E ha insistito: "L'Italia ha già preso, e intende ribadirlo nel modo più solenne, l'impegno di rispettare qualsiasi decisione di questo Tribunale", compresa quella di "riportare Girone in India" nel caso in cui l'arbitrato dovesse riconoscere alla fine del procedimento la giurisdizione indiana. Azzarello, sospesa l'udienza, si è poi intrattenuto con i giornalisti: "Non si tratta di essere ottimismi o pessimisti, ma ovviamente l'Italia nutre speranze, basate su solide motivazioni giuridiche e umanitarie, altrimenti non sarebbe venuta. Sarà poi il Tribunale arbitrale a decidere a favore o contro la richiesta italiana e in quali termini".

Sorge un dubbio: come mai nel corso della lunga diatriba giudiziaria non si è giunti a considerare come preambolo della vicenda l’immunità funzionale? La norma che prevede l’istituto dell’immunità funzionale infatti è di carattere consuetudinario, e la consuetudine, insieme agli accordi di carattere convenzionale ed agli atti unilaterali de jure riconosciuti, costituisce la fonte primaria delle norme nel diritto internazionale. Si è, inoltre, parlato di incertezza riguardo al luogo dove è avvenuta la tragica morte dei due pescatori, se in acque internazionali o meno. Dal punto di vista giuridico, muterebbe in ogni caso poco. La  prassi secolare ed antichissima che ha portato al principio di cui sopra è conclamata a tal punto da far pensare che l’atteggiamento indiano poco abbia a che fare con il diritto e molto con la politica, in particolare con quella interna dell’India.  Dunque, per l’India che in questo caso si pone al di sopra della legge, la richiesta italiana di far rientrare Salvatore Girone in patria è "inammissibile". Lo scrive l'India nelle Osservazioni scritte depositate al Tribunale arbitrale il 26 febbraio scorso e rese pubbliche oggi in occasione dell'udienza. "C'è il rischio che Girone non ritorni in India nel caso venisse riconosciuta a Delhi la giurisdizione sul caso", prosegue il documento. "Sarebbero necessarie assicurazioni in tal senso" dall'Italia, che finora sono state "insufficienti".

Il collegio è composto da cinque giudici: Francesco Francioni è stato nominato dall'Italia e Chandrasekhara Rao dall'India. Insieme a Golitsyn, il sudcoreano Jin-Hyun Paik e il giamaicano Patrick Robinson, sono stati scelti dal Tribunale del mare di Amburgo (Itlos) e nominati con l'assenso di Roma e Nuova Delhi. A rappresentare l'Italia nell'aula dell'Aia, oltre ad Azzarello, per la parte indiana Neeru Chadha. Dopo l'udienza la decisione della corte è attesa non prima di quattro settimane. Per l'arbitrato vero e proprio i tempi sono lunghi: la corte ha dato a Italia e India almeno fino a a febbraio 2018 per la presentazione di memorie e controdeduzioni. L'altro fuciliere Massimiliano Latorre, in Italia per ristabilirsi dopo un ictus che lo ha colpito nel 2015, vi resterà, grazie a una decisione del Tribunale internazionale del mare avallata dalla Corte suprema indiana, fino alla fine dell'arbitrato.

Intanto in India, come ogni settimana, il marò Salvatore Girone si è presentato puntuale stamattina al commissariato di polizia di Chanakyapuri, nei pressi dell'ambasciata d'Italia a New Delhi dove risiede da oltre tre anni. Il Fuciliere di Marina era accompagnato dall'addetto militare Roberto Tomsi. Si è trattenuto negli uffici circa 15 minuti per espletare le formalità relative all'obbligo della firma settimanale stabilito dal regime di libertà provvisoria dietro cauzione in cui si trova dopo l'incidente del febbraio 2012 in cui sono morti due pescatori keralesi. All'uscita Girone, in giacca e cravatta, è sembrato disteso, ma non ha rilasciato dichiarazioni.

L’immunità funzionale per i membri delle forze armate, come istituto, si può reperire nei documenti diplomatici del XIX secolo. Un primo esempio per comprendere la situazione dei marò, è reperibile in un documento diplomatico dove si evidenzia la rivendicazione dell’immunità funzionale nell’affare McLeod del 1841. McLeod, un ufficiale delle forze britanniche, attaccò assieme ai suoi subalterni, una nave, ormeggiata nello Stato di New York, cagionando la morte di uno dei membri dell’equipaggio della nave Caroline, giacché eseguivano ordini provenienti dal governo inglese di procedere a colpirla e distruggerla. Durante la sua visita negli Stati Uniti per ragioni non correlate alla sua mansione di ufficiale del Regno Unito, venne sottoposto agli arresti e processato a New York, per omicidio e per incendio alla nave Caroline. Alla notizia dell’arresto di McLeod, il governo inglese manifestò un atto di accusa nei riguardi del governo statunitense, asserendo che l’attacco alla Caroline costituiva un atto ufficiale e, quindi, ogni responsabilità non ricadeva su McLeod, ma solo sul governo del Regno Unito, con conseguenza del suo rilascio e del non procedimento processuale. I due soggetti di diritto internazionale e gli Stati Uniti e la Gran Bretagna risolsero la controversia, giungendo in modo concorde a ritenere che un individuo, facente parte di una forza pubblica ed agendo sotto l’autorità del proprio governo, non va considerato responsabile delle azioni compiute. È un principio di diritto pubblico sanzionato dagli usi di tutte le nazioni civili e che il governo statunitense non ha espresso alcuna contrarietà.

Malgrado ciò, McLeod venne ugualmente processato nello Stato di New York con l’accusa di omicidio. Mentre il ramo esecutivo del governo federale statunitense sembrava aver concesso al McLeod il beneficio dell’immunità funzionale, ciò non fu condiviso nel sentimento federale nello stesso tempo con alcuni distinguo. In risposta a questa controversia il noto senatore statunitense John Caldwell Calhoun dichiarò al Senato degli Stati Uniti che ora, non possono esserci dubbi che la simile norma, quando applicata agli individui, e che sia il capitale sia gli agenti o, se volete, gli strumenti sono da considerare responsabili nell’ambito penale, direttamente il contrario della norma su cui venne fatta per il rilascio di McLeod ( … ). Si supponga, inoltre, che le autorità inglesi od ogni altra autorità di un altro Stato, contemplando la guerra, invii degli emissari a far saltare la fortificazione eretta, ad alto prezzo, per la difesa del nostro commercio, sarebbe la produzione dei più autentici documenti firmati da tutte le autorità del governo inglese, renderlo una transazione pubblica e dispensare i cattivi da ogni responsabilità dalle nostre leggi e dal nostro ordinamento giudiziario? O desidererebbero che il governo presenti una richiesta per il loro immediato rilascio? Questa dichiarazione fatta dal senatore J.C. Calhoun dovrebbe rendere chiaro il fatto che, in combinazione con il processo di Alexander McLeod, il principio inerente l’immunità funzionale per gli ordini militari non era saldamente stabilito nel 1841. È vero che la dichiarazione del governo federale degli Stati Uniti, in quanto responsabile della politica estera, sopporta un peso maggiore sul tema rispetto a quelli del solo senatore e dello Stato di New York.

Il caso esposto, così come tanti altri casi meno conosciuti, dimostra  che le fondamenta per affermare una norma generale del diritto internazionale, che determini l’istituto dell’immunità funzionale per coloro che agiscono in uniforme militare, sono in un certo senso barcollanti. Dal post secondo conflitto mondiale e dagli anni ottanta, si potrebbe affermare che l’immunità funzionale per gli atti ufficiali simili ai crimini non esistevano. L’attuale prassi, sino a poco tempo fa, sembra seguire il percorso disposto dalla prassi moderna e non dalla norma approvata nel 1840 dai governi statunitense e britannico. Il rifiuto di una norma generale, la quale si riferisce all’immunità funzionale per il personale militare nell’esercizio delle loro ufficiali funzioni, cagionerà una serie di conseguenze nella controversia tra Italia ed India, le sta già causando. Ciò sta ad indicare, in particolare, che la rivendicazione dell’Italia all’esercizio della giurisdizione esclusiva sui due fucilieri della marina militare è corretta. In attesa del verdetto, auguriamo ai nostri Marò, che possano ritornare  presto alle loro case, ed essere avvolti dal calore del tricolore italiano, al quale hanno giurato fedeltà.

Don Salvatore Lazzara*

 

*Il presenta articolo potete trovarlo anche su il faro.it: Marò verso la svolta? Il punto di vista di @Don_Lazzara

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Uno su mille ce fa, cantava Gianni Morandi. Ed è più o meno la situazione dei bambini Down in Danimarca, dove il 95% delle coppie, alla scoperta di un nascituro affetto da Trisomia 21, ricorre all’aborto. Una forma di razzismo prenatale per la verità presente anche in diversi altri Paesi, come per esempio l’Inghilterra, ma che è andata accentuandosi drasticamente fra il 2004 ed il 2006, dopo le nuove misure governative danesi sui controlli prenatali (Cfr. BMJ, 2008;337:a2547). Morale: dei bimbi con anomalie genetiche, appena uno su 800 nasce. Gli altri invece vengono eliminati uno dopo l’altro, come si conviene sotto quell’inflessibile “cultura dello scarto” denunciata da Papa Francesco come uno dei mali del nostro tempo.

Però ogni tanto qualcuno sfugge ai pur affilatissimi ingranaggi dell’eugenetica e viene alla luce, forte come una verità ed inatteso come un imprevisto. E’ il caso della piccola Emmy, bambina affetta da Trisomia e venuta al mondo – si direbbe – per guastare i piani al micidiale anche se invisibile razzismo fetale, per portare a tutti il sorriso innocente e dolcissimo suoi e dei suoi migliaia di fratellini abortiti, che a differenza sua non ce l’hanno fatta. Oggi Emmy ha cinque anni, è la bionda protagonista di un fotoracconto ed ha già messo in subbuglio la comunità di Århus, quasi 320.000 abitanti, seconda città più popolosa della Danimarca ma nella quale è stata assai dura, raccontano i genitori, trovare un asilo che la accogliesse.

Per forza: una volta che una società si orienta ad una certa idea di perfezione, basta una bambina come Emmy a sconvolgerla e, soprattutto, ad interrogarla. A chiedere con la sola forza dello sguardo, interpellando tutti, se poi vi sia davvero qualcosa di giusto, qualcosa di umano e di coerente nello scartare bambini come fossero arnesi difettosi anziché creature innocenti, errori e non volti di quella meraviglia che risponde al nome di amore, che non fa nessuna reale distinzione. Sta crescendo, la piccola Emmy. Ma non ci vuole molto a pronosticare che saranno quelli come lei i veri rivoluzionari del futuro, coloro che insegneranno ad una società che si crede sana la malattia dell’anima contratta inseguendo la perfezione dei corpi.

Giuliano Guzzo

 

Fonte: giulianoguzzo.com

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siringa11

I down danesi non stanno venendo sterminati per debellare una malattia (anche perché, sono quasi sempre figli di persone sane): stanno venendo abortiti per rimuovere  dalla società una categoria di persone quasi sicuramente “improduttive”, e “non degne” di vivere. Perché non sono come gli altri, e la loro sofferenza li porta alla “sofferenza”, quindi è meglio aiutarli a “morire”. Il dibattito avviato in Danimarca sull’eutanasia ai bambini portatori di handicap, segna l’annientamento definitivo dei valori legati alla vita. Ogni esistenza umana è sacra e inviolabile. A questo punto, ricalcando l’esperienza “civile” dei paesi “progrediti” come la Danimarca,  ai promotori dell’eutanasia di Stato non resta che un ultimo argomento: l’autodeterminazione assoluta dell’individuo. Legalizzare l’eutanasia – si dice – non costringe nessuno a ricorrervi, ma lascia semplicemente libero ciascuno di scegliere diversamente da quanto avviene ora con una morale cattolica imposta per legge che vuole infliggere ai malati penose e inumane sofferenze. Anche questa tesi, tanto per cambiare, è del tutto priva di fondamento. Iniziando dalla crudeltà cattolica e dal presunto “dovere di vivere”, si sottolinea come nessuno abbia mai affermato argomenti del genere, anzi: il Catechismo stesso condanna l’accanimento terapeutico (CCC, 2278) e che già quel cattivone di papa Pacelli (Pio XII), nel lontano 1957, precisava che se «la somministrazione dei narcotici cagiona per se stessa due effetti distinti, da un lato l’alleviamento dei dolori, dall’altro l’abbreviamento della vita» essa è da ritenersi «lecita».

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Bambini abusati, torturati, ridotti a schiavitù sessuale e poi trafficati su web: il crimine della pedofilia e della pedopornografia cresce e continua a produrre profitti. Lo denuncia il Report 2015 dell’Associazione "Meter" di don Fortunato Di Noto, presentato nella sede di radiovaticana. Oltre un milione di foto e video segnalati, 125.000 siti denunciati in questi numerosi anni di attività. Centinaia di bambini coinvolti: dai neonati ai minori di 12/13 anni. L’esplosione dei social network (facebook, twitter, you tube, e tanti altri di nuova creazione), gli archivi cloud (che permettono di condividere materiale con estrema facilità), ma anche la faccia oscura del Deep Web, che potremmo dire è come il volto nascosto della luna: tutti sanno che c’è, ma nessuno l’ha mai vista. L’associazione Meter, commenta don Fortunato, “sta denunciando il graduale spostamento commerciale dei pedofili su questa nuova rete, e in particolare sugli archivi che si possono nascondere in essa. Scandagliare i meandri del dep web, è molto difficile da trovare ed esplorare. Le varie polizie del  mondo, non hanno idea di come intervenire, mentre la politica è completamente disinteressata ad un fenomeno così occulto eppure molto grave e pericoloso”.

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